Nel tempo di Halloween e di “dolcetto o scherzetto”, S’Aràbu racconta i suoi ricordi di bambino quando, la sera del 1° novembre, si andava nella case per “pedire sa mela” e, all’apertura dell’uscio, ci si presentava dicendo: “Animas de Prugadoriu, Ave Maria!”.
Da bambino aspettavo con ansia la festa di Ognissanti e quella dei defunti. In realtà non era una vera e propria festa: si andava al cimitero, si visitavano i propri cari e si faceva un giro tra le tombe per salutare tutti. Bastava un semplice sguardo verso una foto sbiadita dal sole e dal tempo o qualche secondo di sosta per leggere l'epitaffio.
Nel primissimo pomeriggio, appena dopo pranzo, andavo al camposanto. Il pallido sole autunnale mi accompagnava nel tragito che mi portava verso “Su fronte ‘e rughe”, la località dove è ubicato il cimitero. Mentre percorrevo il viale, pensavo al significato della scritta in latino posta in alto al cancello d’ingresso: “DVM RESVRGAM”. Tanti anni dopo scoprii che significa “fino a risorgere”.
Il segno della croce era d’obbligo appena varcavo la soglia. Nella parte più antica del cimitero c’erano solo vecchie tombe. Il quadro sulla destra vicino alla cappella, era quello dedicato ai bimbi. Mi colpiva tanto una tomba anonima nella quale qualcuno metteva qualche fiore e qualche lume. Era quello di un bambino annegato al lago, figlio di un torronaio venuto in paese per la festa di S. Costantino. Sulla lapide non c’era nè il nome nè la foto.
Lungo il sentiero centrale che porta alla cappella, a pochi passi sulla destra, c’è mia nonna paterna: Nonna Careddu. Ogni volta che entravo al cimitero non potevo saltare di passare a salutarla. Avevo l’impressione che lei mi vedesse e si dispiacesse se passavo dritto.
Nel secondo riquadro, quello sulla sinistra, a fianco della cappella, c’è mio nonno paterno: S’Aràbu. Proprio lui. Il nonno al quale è intitolato questo sito web. La foto sulla croce è la stessa presente in home page. Da S’Aràbu andavo a trovare Nonnu Agos, lui riposa nei loculi che fanno ad angolo con il primo muro di recinzione, sul lato est sud-est: nell’ultima fila, quasi irragiungibile. E’ vestito in costume sardo, con “zippone” e “beste”. Il suo sorriso nella foto è fantastico. Avevo l’impressione che quando lo guardavo volesse proprio regalarmi quel sempiterno sorriso, anche se non l’ho conosciuto quando era in vita.
Ricordo quelle lunghe scale in ferro, che oggi sarebbero fuori legge a causa delle severe norma sulla sicurezza. Le usavo per raggiungere la tomba di Nonnu Agos e Babbai Tisteddu, che si trovavano nei loculi dell’ultima fila, per sistemare i fiori e accendere qualche lume che si spegneva a causa della classica pioggiarella che, beffarda e fulminea, cadeva la notte.
Finito il giro dei nonni e dei prozii, iniziava quello che mi portava dalla zona vecchia a quella nuova, passando per la misteriosa e tetra cappella della famiglia Zonchello. Nel pavimento c’era una bottola in marmo attaccata a due pesanti anelli di ottone. Si fantasticava su ciò che ci potesse essere sotto. Alcuni dicevano che fosse l’ossario di famiglia, altri che ci fosse una stanza sotterranea identica a quella superiore destinata alla sepoltura della servitù. Tanti anni fa era molto ben tenuta: per l’occasione il piccolo altare veniva addobbato a festa con sontuose tovaglie, i lumi rossi di diversa grandezza, le candele nei lucidissimi candelabri in ottone e tanti fiori profumati che rendevano l’aria molto densa e quasi irrespirabile. Lo stesso profumo dei fiori lo si respirava anche fuori, ma era meno penetrante.
La sera del primo novembre per noi bambini era una gioia: con gli amichetti del vicinato ci riunivamo per andare a “pedire sa mela”. Prendevamo grandi buste che riuscivamo a riempire di ogni ben di Dio: castagne, caramelle, mele cotogne e melegrane. Di solito si andava a trovare i parenti di ognuno o si visitava qualche casa del vicinato che si sapeva essere abitata da persone molto generose.
Un giorno, andammo a casa della zia di un amico che era nel gruppo assieme a noi. Bussammo e dopo qualche minuto si spalancò la porta. Gridammo subito in coro: “Animas de Prugadoriu, Ave Maria!”, la signora ci invitò ad entrare e ci fece accomodare in cucina. Li trovammo la tavola imbandita: sul tavolo c’erano quattro o cinque piatti in compagnia dei rispettivi bicchieri, tovaglioli e forchette. Al centro c’era un catino con un grande piatto che fungeva da coperchio. Era piena di spaghetti al ragù preparati per i defunti (“po sas animas”, ndr). Ci disse di metterci a tavola. Dopo un po’ di insistenza e con un po’ di timidezza, ci sedemmo. Lei gentilmente ci servì la pastasciutta ancora calda e la mangiammo fino a sazietà. La serata non era andata per niente male. Finito lo spuntino inaspettato, ci vennero regalate anche delle castagne equamente distribuite e riversate dentro ciascuna busta. Ringraziammo e salutammo con un “ateros annos!”. “Deus cherzat! Bazi in bon’ora!”, rispose la signora. Uscimmo di nuovo in strada per continuare il nostro giro.
Alla fine della passeggiata, che durava qualche ora, tornavo a casa con due bustoni giganteschi, strapieni di ogni bene che, a stento, riuscivo a trasportare.
La giornata si concludeva abbastanza presto perchè l’indomani, noi chierichetti, dovevamo salire sul campanile per suonare “sos toccos” o “repicos” per tutta la mattina. Si iniziava alle 7 e lassù c’era un bel po’ di freschetto, senza contare la nebbia che nelle prime ore ci impediva di godere del panorama.
Solitamente il campanile per noi era vietato. Don Scanu non permetteva che salissimo perchè era pericoloso. In effetti non aveva tutti i torti. La stretta porticina dell’ingresso dava di fronte al vano pesi dell’orologio, fermo da decenni. Era una sorta di vano ascensore a vista, un buco nella costruzione che correva lungo tutta l’asse verticale e terminava sotto la camera degli ingranaggi posta dietro il quadrante in vetro bianco. I pesi erano due pesanti pietre di basalto con un foro, al quale erano agganciate le robuste catene arruginite che li tenavano sospesi. Subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra c’erano i ripidissimi scalini che correvano lungo i fianchi interni del campanile, stringendosi nel punto in cui si trovava il buco dei contrappesi protetto da una vecchia ringiera in ferro battuto, tutta sgangherata. Essa accompagnava gli scalini fino in cima. A metà strada c’era una vecchia porta in legno che si affacciava sul tetto della sagrestia. Continuando a salire si arrivava al pianerottolo dove c'era la porticina dell’orologio per poi terminare la salita, con una manciata di scalini che portavano alla camera delle tre campane di bronzo: il din (la piccola, posta nella finestra est), il don (quella più massiccia, fissata sulla finestra della parete dell’orologio) ed il dan (nella finestra ad ovest).
Frantiscu, lo storico campanaro di Sedilo, ci aveva insegnato come fare “sos toccos”, erano quelli che si facevano anche in occasione dei funerali. Tre cicli di din-din-don e, per chiudere, quattro don. Ogni battito seguiva il precendente quando la campagna smetteva di vibrare. Era facile.
Dopo aver passato la mattina lassù, a mezzogiorno si scendeva e si tornava a casa. Il primo pomeriggio si ripeteva la visita del giorno prima in cimitero, seguendo lo stesso identico copione.
Da qualche anno tutto è cambiato. Ora c’è la carnevalesca festa di Halloween che, coi dolcezzi e gli scherzetti, ha soppiantato quella più austera e semplice di “Animas de Prugadoriu, Ave Maria!”. E pensare che tanto tempo fa in occasione della festa dei defunti si accendevano delle candele dentro le zucche “crucurigas de istrezu”, incise in modo da creare delle facce, proprio come avviene ora con quelle arancioni per Halloween.
[28 ottobre 2012]
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