Storici, Antropologi, Teologi, persino archeologi sono quelli che più si sono dedicati allo studio dell’Ardia, sia del significato della parola che per quello che rappresenta o vorrebbe o dovrebbe rappresentare.
Ognuno da una interpretazione secondo i propri punti di vista esattamente contrari, a quegli degli altri. Lo studio della parola Ardia è stata già affrontata altre in passato, ma cosa veramente rappresenta L’Ardia di Sedilo, quella che si corre in onore di San Costantino (Santu Antinu)?
Attualmente, l’Ardia la si definsce come rappresentazione della battaglia di dell'impertaore Costantino vinta contro il suo rivale e cognato Massenzio a Roma, a Ponte Milvio, il 28 Ottobre del 312 D.C., con la famosa visione della Croce e la scritta “In Hoc Signo Vinces”.
Questa versione voluta più che altro dal clero locale, ultimamente ha trovato numerosi oppositori, che rigettano totalmente questa versione.
Alla luce di nuovi studi e, specialmente, osservando lo svolgimento della corsa, il luogo e la data, si nota che non ha nulla che ricordi quella battaglia dell’Imperatore Costantino. Gli unici segni che si notano sono il pettorale del cavallo de sa Prima Pandela con la scritta “In hoc signo vinces” e l’arco che si è voluto far somigliare a quello di Roma, eretto in ricordo di quella battaglia.
Questi due segni sono stati espressamente voluti da Don Pinna, allora parroco di Sedilo, per dare finalmente “ufficialità”, al fatto che l’Ardia sia la rappresentazione di quella battaglia e cosi “su portale 'e linna” fu abbattuto, per far posto a questo orrendo manufatto e il cavallo de “sa prima pandela” fu addobbato col pettorale, regalato da una famiglia di Sedilo. Questi due elementi fecero la loro prima apparizione nel 1955. Sino al 1954 il pettorale era addobbato con delle rosette e fiori. Questi dettagli si possono facilmente verificare consultando il libro intitolato “Pandelas” edito dall'associazione Santu Antinu nel 2006.
L'Ardia come la rappresentazione della Battaglia di Ponte Milvio è stata voluta dal clero locale per dare una spiegazione più o meno plausibile della devozione crescente a Costantino perché, nell’elaborazione mitico-simbolica, l’Ardia diviene pienamente operante al momento della rivelazione rituale del mito che rappresenta che è fortemente enfatizzata durante la Festa. In questo quadro ogni immagine della credenza popolare dei sedilesi costituisce una rivelazione di un particolare intervento del Santo Imperatore nel quale si fonda la complessa invenzione mitica dell’Ardia, molto più dell’invenzione del mito Croce-Vittoria-Sogno o visione di Costantino della Croce.
Alcuni studiosi invece fanno risalire l’Ardia all’età nuragica, come il Masala, che la collega addirittura ai Mamuthones, come rito arcaico, alla luce degli ultimi ritrovamenti che affermano che i Nuragici conoscessero i cavalli.
Non si può trascurare, come accennato, quello che asserisce lo studioso F. Masala, che fa risalire l’Ardia all’età Nuragica. Sin quando l’archeologo A. Taramelli non descrisse un bronzetto nuragico che rappresentava un cavallo con un arciere, molti negavano che il cavallo fosse conosciuto dai nuragici e che fosse stato introdotto nell’isola dai fenici. Alcuni ritrovamenti di ossa di equini databili nel Neolitico ribaltano la tesi che affermava che i nostri avi non conoscessero e domassero i cavalli, sia per il lavoro quotidiano che per giochi equestri.
Il grande archeologo G. Lilliu va oltre e afferma che quel bronzetto potrebbe raffigurare un cavaliere che corre una delle prime Ardie. La passione del Lilliu per l’Ardia è nota tanto che chi andava a trovarlo mostrava con orgoglio due gigantografie appese nel suo studio, la reggia nuragica di Barumini e l’Ardia di Sedilo e, aggiungeva compiaciuto, che erano i due massimi segni della Sardegna e dei Sardi. Il Masala vede nell’Ardia la ruinosa età delle invasioni dei Vandali che devastarono l’isola. Nei vari secoli sino agli inizi del novecento, quelle scorrerie furono conosciute come “bardane”. I Vandali di origine germanica, come gli stessi Longobardi, invasero la Sardegna per brevi periodi e sono pochi i ritrovamenti che li riguardano.
Per molti studiosi Ardia deriva dal Germanico Warden o Wardon e tutto ci fa ritenere che il termine può essere stato importato dai Vandali. La loro religione era quella Ariana che l’Imperatore Costantino, col Concilio di Nicea, cercò di contrastare, ma che alla fine riabilitò, tanto che a battezzarlo sul letto di morte, fu il Vescovo Ariano Eusebio di Nicomedia.
Furono i Vandali, prima dei Bizantini, ad introdurre il culto dell’Imperatore Costantino nell’Italia Meridionale e in Sardegna e questa è una delle tante ragioni, che nessuno spiega, perché la Chiesa Santa Apostolica Romana non dichiara la Santità di Costantino, consentendo un ridicolo e ambiguo culto locale. Furono anche i Longobardi, che furono ruinosi Bardanieri, a metà del 500, specialmente nel nord della Sardegna, anche loro di fede Ariana e devoti del Santo Imperatore. A Porto Torres (Turris Libissonis) è stata trovata una lapide, che ringrazia il “Dux Costantino” per aver condotto i Sardi alla vittoria contro gli infedeli Longobardi. Anche nel caso del Battesimo di Costantino la Chiesa è ambigua, così come il clero locale.
Nel Santuario di Monte Isei, all’ingresso sulla sinistra, ci sono una serie di foto che mostrano il Battesimo di Costantino da parte del Papa San Silvestro, come sull’altare si può osservare la sua statua, per poi sentire nella predica che Costantino si battezzò in punto di morte, omettendo il nome dell’officiante e l’appartenenza di questi al rito Ariano. La domanda sorge spontanea: quel battesimo è valido?
Ardia, riconducibile alle antiche Bardane? Bardiare, Bardanare, Bardia, Bardana, etimologicamente ci riporta a Ardiare, Vardiare, Ardia. Le Bardane sono state una piaga della Sardegna, specialmente nelle zone interne, chiamate anche “isorrobatorios”. Le Bardane erano strutturate gerarchicamente, non erano improvvisate, non disdegnavano di avere come capi ricchi “Printzipales” e anche degli ecclesiastici senza scrupoli, che comandavano individui di diverse località. Non meno di 100 abili cavalieri si riunivano armati di fucili, prima di dare l’assalto al paese da loro individuato, che cingevano d’assedio, razziando ogni cosa e mettendolo a ferro e a fuoco. Le forze dell’ordine nulla potevano contro i “Bardaneris”, che avevano sempre la meglio.
Si racconta che i Sedilesi non disdegnavano questa pratica, vista la loro abilità a cavallo. Dopo ogni Bardana i Bardaneris si recavano in una località, ben agibile ma protetta, ove si dividevano il bottino e festeggiando l’impresa riuscita con corse di cavalli e sparando in aria per poi disperdersi nella fitta boscaglia nelle zone impervie dell’Isola. Qualcuno afferma che uno dei luoghi deputati a tale operazione era Monte Isei che, per quello appena descritto si prestava benissimo.
Una delle Bardane più violente, come racconta il Carta Raspi in “Storia della Sardegna” fu sicuramente quella del 1796 ai danni degli abitanti di Bono, rei di aver dato i natali a G. Maria Angioy e, anche dopo la sua morte e dei “Motti Angioni”, i bonesi rimanevano dei pericolosi sovversivi. La si ricorda ancora oggi come “L’assedio di Bono”, ove politica e s’isorrobatoriu si fondono. Fu un massacro. Non è il caso di raccontarlo nei dettagli per la sua atrocità. Era il 14 Luglio di quell’anno, vi parteciparono cavalieri di Osilo, Tempio e Sedilo. Personalmente non credo che cavalieri di Sedilo abbiano preso parte a quella Bardana, era il 14 Luglio forse il giorno dell’Ottava di Santu Antinu e, visto il legame dei bonesi con i sedilesi e la devozione al Santo, mai si sarebbero macchiati di un così orrendo delitto.
L’illustre bizantinista russo Alexander Peytrovic Kardan scrive in “Constantin Imagnair”:
“Non trova nessun riscontro nella storia, bensì nella leggenda, specialmente nella fioritura popolare, tra il VII e IX secolo questa apparizione della Croce. Ebbene questo proposito gli elementi dell’Ardia di Sedilo, potrebbero anche giudicarsi più arcaici, rispetto al moltiplicarsi di elementi leggendari intorno a Costantino”.
Quella battaglia non fu così grande come ci viene fatto credere, perché circolavano voci discordi sulla presunta visione e si cercò di utilizzare visione e battaglia come aperta adesione di Costantino al cristianesimo. Fu più che altro una scaramuccia che non cambiò certo il corso della storia. Furono i cristiani che, in tutti i modi cercarono di descriverla con un alone mistico alla stregua di un “Giudizio di Dio”. La ferocia della propaganda tra Pagani e Cristiani si fa più sottile: i pagani cercano di neutralizzare l’evento, mentre i cristiani lo enfatizzanoo. Costantino vinse a Ponte Milvio per volere del loro Dio, dopo che il Senato di Roma edificò l’Arco di Trionfo per ricordare la vittoria di Costantino, dove non si trova nessun simbolo di nessun tipo che ricordi l’intervento di Dio né, tanto meno, croci o scritte. I cristiani presero in prestito la scritta nell’Arco “Intistuntis divinitatis”, che genericamente parla di una divinità, per darle una grande valenza politico-religiosa che l’imperatore fosse ispirato dal cielo dal loro Dio e condotto alla vittoria contro il pagano Massenzio.
Il messaggio è molto chiaro: legittimare Costantino che con la visione vinse la battaglia, tanto che la statua equestre del Bernini, che rappresenta Marco Aurelio, posta in Piazza del Campidoglio, fu fatta passare come quella di Costantino col cavallo che s’impenna davanti al prodigio della visione della Croce e della scritta “In hoc signo vinces”, prima della vittoriosa battaglia.
Sembra molto più credibile che l’Ardia sia la rappresentazione della vittoria di Costantino contro l’imperatore Licinio, visto che molti elementi si intrecciano.
Nell’Impero Romano la situazione nel 312 D.C. era chiara: eleminato Massenzio, il potere era diviso tra Costantino in Occidente e Licinio in Oriente. Si capiva che la soluzione era provvisoria, non reggeva neanche la parentela tra i due: Licinio, che insieme a Costantino, aveva promulgato l’Editto di Milano, in quella città aveva sposato la sorellastra Costanza, nel Febbraio del 313, che poi divenne Santa(?).
Già nel 316, qualche storico, parla addirittura che nel 314 si ebbe uno scontro tra i due noto con il nome di “Bellum Cibalense”. Costantino era apertamente filo cristiano e Licinio ne temeva le conseguenze perché le motivazioni religiose di suo cognato piacevano sempre di più al movimento dei cristiani in forte crescita e già organizzati. Nell'esercito di Costantino i simboli cristiani si intensificarono.
Un piccolo scontro si ebbe a Cibale senza né vincitori né vinti, ma si stava preparando lo scontro finale. Costantino compiva scelte sempre più apertamente filo-cristiane, perché aveva capito che i cristiani stavano diventando molto potenti e gli sarebbe tornato utile. Licinio fu rappresentato dalla propaganda cristiana alla stregua di Massenzio: persecutore dei cristiani, perona debosciata dedita all’ozio e ubriacone. Costantino otteneva le vittorie grazie all’assistenza divina e grazie ai “Sacerdoti di Dio” che voleva sempre al suo fianco, per aiutarlo con le preghiere. Mentre affermavano che Licinio, contrariamente, si circondava di indovini e stregoni e faceva sacrifici alle divinità, in segno di scherno.
Scrive lo storico Ramsay Mac Mullen:
“Costantino dunque combatteva per Dio, contro il Demonio, per Costantino il Cristianesimo non era solo un modo di vita, ma anche un mezzo di Vittoria”.
I due eserciti si fronteggiarono ad Adrianopoli, in Tracia. Licinio attendeva Costantino forte di 165 mila soldati e 350 navi, contro i 120 di quest'ultimo. Costantino fu vittorioso in terra e suo figlio Prisco, avuto dalla concubina Minervina, sconfisse l’imponente flotta.
Cosa può legare quindi quell’evento all’ Ardia di Sedilo, in contrapposizione a quella di Ponte Milvio? Gli storici con molta dovizia di particolari ci raccontano di quella battaglia.
Costantino mosse con tutto l’esercito, costituito da migliaia di fanti, arcieri e una cavalleria ben addestrata. Arrivato in Pannonia, nella Tracia, dove si trovò, dopo una lunghissima marcia d’avvicinamento con gli uomini stanchi e, per di più, meno numerosi di quelli del rivale. Si accompò in una collinetta per studiare le mosse di Licinio, prima di sferrare l’attacco e, da grande stratega e abile guerriero, escogitò un piano. Lasciò sull’altura il grosso dell’esercitò per riposarsi e organizzarsi. Una sera, all’imbrunire, scelse 80 dei suoi migliori cavalieri, attraversò il fiume con altri 5000 arcieri e, con abili mosse di guerriglia, distolse l’esercito di Licinio, per studiarne il comportamento, la qualità e la quantità. Di notte tornò sulla collinetta dal grosso del suo esercito e la mattina scelse altri 12 cavalieri in aggiunta agli ottanta della sera precedente e sferrò l’attaccò finale. Vinse la battaglia, che costò a Licinio 36.000 morti e la perdita dell’Impero d’Oriente.
In un primo momento Licinio ebbe salva la vita tramite la moglie Costanza, che pregò il fratello di risparmiarlo. Costantino, in un primo momento, sembrò di voler accettare la proposta, ma poi lo fece decapitare insieme al suo figlio Liciniano.
Ormai l’Impero era unificato e Costantino era il padrone assoluto. La battaglia si svolse presso Adrianopoli, l’attuale Idirne, nella valle della Ardia. I soldati si ritrovarono a festeggiare dal 3 Luglio in poi in “Campus Ardiens”.
Lo studioso più accreditato dell’evento, H. Gregoire, la racconta in suo scritto “Deux Champs de Battaille”:
Campus Ergenus et - Campus Ardiensis – Bizantinion [...] Le Campus |M| Ardiensis, ne peut Donc Etre que la Plaine de Ardia […] Campus Ardiensi.
Per celebrare quella battaglia, Costantino fece costruire l’ippodromo di Costantinopoli che doveva essere il più grande. Da quel momeno, dal 3 luglio di ogni anno, commemorava quella vittoria con grandi corse di cavalli e riconosce che l’apporto della cavalleria fu determinante nella battaglia, specialmente per quei 102 abili cavalieri.
La privilegiò con la costituzione dei “Comitates”, reparti scelti di guardia a cavallo. Li ritroviamo nel periodo Bizantino e, anche in epoca Giudicale, alle dirette dipendenze dell’imperatore, sempre pronti per un rapido intervento. Le corse, che iniziavano il 3 luglio, erano spettacolari e tutto il popolo vi partecipava.
A tal proposito, Giovanni Crisonomo Patriarca di Costantinopoli durante un omelia si scagliò contro il popolo che ancora, dopo 75 anni, si recava all’ippodromo alle corse di cavalli per celebrare quella vittoriosa battaglia. Li chiama con disprezzo “costantinopolitani”. Questo ce lo racconta il grande studioso J. Pargoire in “Les Homelies de Sant Chrysostone en Juillret”.
Anche se non possiamo affermarlo senza alcun dubbio, ci sono indizi suggestivi e clamorose coincidenze come: i cento cavalieri, le due battaglie svoltesi una la sera e l'altra la mattina, la scelta del mattino e dei cavalieri più abili da mettere al comando, la data e il nome della località dove si svolse e la commemorazione dal 3 luglio. Ci viene da pensare che quella corsa nell’ippodromo di Costantinopoli fosse chiamata ARDIA, con l’Imperatore Costantino davanti ai suoi cavalieri che corse la prima ARDIA della storia.
E’ da notare come qualcuno, vedi il Museo dell’Ardia e Monsignor Spada, si rifanno alle corse dell’ippodromo come rappresentazione in primis dell’Ardia, per poi affermare che quelle corse erano la rappresentazione della Battaglia di Ponte Milvio. (?)
Ci sono inoltre studiosi che non credono che l’Ardia sia una corsa in onore di Costantino Imperatore o santi di origini necessariamente bizantine, come per S. Bartolomeo a Ollollai, San Pietro a Dualchi, a Noraggumme addirittura per la Madonna de sa Itria o a Paulilatino. Questo ci riporta ad antichissimi riti pagani. La corsa può essere un rito di purificazione, propiazione e solenne ricognizione dei confini del “Pagus”, con gli antichissimi riti agresti come la “Lustratio Pagi”.
Se si vuole ad ogni costo accostare l’Ardia all’Imperatore Costantino, non deve essere per forza squisitamente religiosa: anche Costantino era legato ai riti agrari. L’Imperatore assicura prosperità al suo popolo perché lui vive nel suo popolo, punto di sintesi e di equilibrio tra cristianesimo, romanità e remiscenze di riti agrari.
Queste celebrazioni infatti, si inserivano in un calendario che fa risorgere alcuni riti agrari come forma che ricordano sempre la prosperità popolare e che legittima l’autorità imperiale con la distribuzione dei viveri, durante la festa del 11 maggio, a ricordo dell’istituzione dell’Annona Civica.
I confini del “Pagus”, si accostano al Santuario e a “Sa corte”. Da una chiesa parte un recinto con un muro circolare, che separa il Sacro, “Sa corte”, da quello profano, il territorio limitrofo confinante. Quando durante l’Ardia i cavalli con in testa “Sa prima Pandela” si lanciano in una corsa tempestosa da “Su Frontigheddu” e attraversato l’arco (prima portale 'e linna) ed entrano nello spazio sacro de “Sa corte” si ricorda ancora oggi con orgoglio, che nessun cavaliere durante l’Ardia è morto in quel fatidico spazio sacro, come che conquistassero una carica mistica, un’iniziazione, con la difesa del centro “Sa Muredda”.
In quanto a giri, “Sos Inghirios” sia intorno alla Chiesa che intorno a “Sa Muredda”, sempre dispari, si tratta di una concezione mistica e sembra di capire che i giri non siano altro che la ricognizione del territorio.
Il compianto Pof. Francesco Naseddu, non accosta l’Ardia né a Costantino né a santi e ne fa una appassionata e interessantissima analisi.
L’Ardia era un adempimento obbligato, imposto dalle autorità: prima da Bisanzio e poi nel Medioevo Sardo dai Giudici. In una semplice parola l’ARDIA era una mostra, tesi che sostiene anche E. Besta nel suo trattato di “Storia Medioevale della Sardegna” il cui fine era l’attitudine dei cavalli al compito al quale erano destinati e la capacità di chi li montava di guidarli. Queste prove di addestramento alla guerra simulata, erano necessarie soprattutto alle reclute, chiamate a sostituire i veterani. L’esecuzione era sempre uguale fin dall’inizio: preparare una guerra vera mediante simulazione di una guerra figurata.
In età Giudicale gli istruttori si rifacevano al manuale Bizantino di Leone VI detto il Sapiente, che scrisse “Il Taktica Constituto VII”. La discesa era sempre contemplata, perché la velocità mal controllata e mal frenata comportava un all’allargamento, non un incolonnamento come in piena avanzata in combattimento. Di conseguenza si aveva una selezione dei cavalieri più abili, che si presentavano nell’entrare nella strettoia (l'arco) lasciandosi dietro i meno abili o con cavalli meno potenti o scarsamente domati e allenati.
La partenza fulminia dei primi dall’altura era sempre protetta dai secondi, che avevano il compito di mantenere le distanze e l’ordine tra i primi (i comandanti) e il resto dei cavalieri. Anche un ostacolo alla partenza era contemplato. Oggi “Sa Rughitta” aveva il compito ben preciso: l’incolonnamento ed il registrimento per creare una prima selezione dei cavalieri più abili e così da non presentarsi in gruppo davanti alla strettoia. La velocità dei cavalli nella rapida discesa e, a seguire il tratto pianeggiante, provoca senza volerlo un allargamento ai lati del gruppo, che finirebbe nel strozzarne l’ingresso al successivo curvone in salita, che si allunga a formare un arco sino alla chiesa.
Per questo nella ‘Taktica Constitutio VII’, la strettoia per assottigliare il gruppo era assolutamente indispensabile, che doveva essere posta in fondo-valle e tutti i cavalieri erano obbligati ad attraversare, non più di due, al massimo tre per volta. La manovra per assottigliare la profondità veniva denominata “Bathos”, le manovre dei cavalieri Bizantini in movimento erano molto frequenti e complesse e ne è derivato il termine tecnico (Sfinxix) restringimento.
Nella Taktica Constitutuo VII, di Leone VI, le scorte, oltre che difendere e non far superare i primi, sia nel gioco di guerra simulata o in quella vera, avevano il compito di far rimanere i cavalieri compatti, per affrontare alla meglio gli avversari, evitando balzi in avanti dei singoli, anche se altamente motivati.
Nel gioco simulato dell’Ardia, questi ardimenti sono considerati meritori e vengono ricordati nel tempo, ma un tempo venivano condannati: non si dovevano commettere arditezze per accettare la sfida degli avversari, queste sortite venivano punite anche nei piccoli eserciti Giudicali. Come si osserva attualmente da parte delle scorte, usano anche le maniere forti con i loro “Pinnones”, le aste in legno avvolte con un panno rosso, per far rispettare le regole.
Anche i Comandanti degli squadroni Bizantini, durante le esercitazioni, avevano delle aste, per adeguarsi ad eseguire le forme di movimento con le altre armi espressamente studiate per l’addestramento, ma senza ferro.
Leo Sapiens Taktica 85, come ben studiata era la pausa dopo la discesa e la risalita che oggi si osserva durante i giri intorno alla chiesa. Serviva per far riprendere fiato ai cavalli, dopo il notevole dispendio di energie, per il ricompattamento della cavalleria e la disposizioni in ordine come alla partenza.
Si può obiettare che nel trattato di Leone VI, non era prevista una chiesa e neanche i giri dispari. Tutto ci fa ritenere che si trovava un tempietto, con fonte sacra(?), per eventuale ristoro d’acqua per i cavalli ed i cavalieri. Anche la discesa a un recinto “Sa Muredda” era prevista, con curve e controcurve in discesa anche se non a velocità sostenuta, per verificare l’abilità del cavaliere e del cavallo che doveva essere affrontata con piccole, ma decise falcate.
I giri intorno al recinto di “Sa Muredda” prima in senso orario e poi antiorario, facevano parte integrale dei manuali militari in epoca Bizantina, movimento denominato “Klis”, che significa giro. Nella Taktica Constituto VII è ben spiegato il giro dalla parte dello scudo denominato “Epi spada”, che è sostenuto dalla mano sinistra rivolta verso il recinto (Sa Muredda) e il giro antiorario. L’altro giro in senso orario denominato “Epi dory”, cioè dalla parte dell’asta, (oggi Pandela) si porta con la destra, quindi la destra rivolta verso il recinto.
In questo caso, molti si sono sbizzarriti a descriverci i motivi dei giri intorno a “Sa muredda” prima in senso orario e poi in senso orario. Qualcuno, abbastanza ridicolo, è quello che va per la maggiore ed è l’accettazione della fede cristiana da parte di Costantino (in senso orario) e quello in senso antiorario il ripudio da parte dell’Imperatore e del suo esercito del Paganesimo (?).
Nel manuale bizantino della Taktica, il giro antiorario è descritto ampiamente ed aveva un significato ben preciso, denominato “Metabolè”, che significa cambiamento totale del fronte, attualmente chiamato dietro-front.
Gli squadroni Bizantini lo ripetevano diverse volte durante l’addestramento, in aggiunta alle altre manovre più complesse e appariscenti. Questo avveniva non solo per accrescer l’abilità manovriera nel portare lo scudo a sinistra nel giro antiorario e la spada a destra, nel giro in senso orario in caso di attacco nemico, ma anche per impressionarlo. Con questo movimento la cavalleria con l’incrociarsi in senso orario e antiorario (zirare s’Ardia), dava l’impressione, per il sollevamento anche di un gran polverone, di essere molto più numerosi agli occhi del nemico, che da lontano nascosti osservavano le manovre.
Nel periodo giudicale tali manovre venivano denominate ‘Sa Mostra’, come si avvince dall’articolo 89 della “Carta de Logu”, che vietava ai “lieros de caballu” di vendere o cambiare cavallo, scritto nell’apposito registro, con un segno particolare. Prima de ‘Sa Mostra’ se si cambiava il segno i Lieros erano puniti con la “Maquizia” (Machicia, Multa) di 25 lire.
L’articolo 91 stabiliva che tutti i Lieros disponessero di un cavallo maschio proprio, non inferiore al prezzo di 10 lire, e siano pronti a presentarsi a sa “Mostra” annuale, quando il giudice lo “Recheder”. Sedilo in epoca giudicale situato al confine tra il giudicato di Arborea e Torres, possedeva i pascoli migliori, il suo fiume e le ricche sorgenti d’acqua e villaggi prosperi, ormai scomparsi, come: Norday, Berziere e anche come già scritto il luogo adatto alle manovre de “Sa Mostra” dove attualmente si corre l’Ardia, che sicuramente in epoca giudicale si svolgeva.
Con la scomparsa dei giudicati, e con i mezzi materiali e umani che scarseggiavano, nel tempo “Sa Mostra” perse lo scopo di addestramento militare, dovuta al sovrano dell’epoca, divenendo una manifestazione autocelebrativa e perdeva i vecchi ordinamenti militari bizantini, ormai non più validi perchè decaduti.
Alla componente civile-militare, si aggiunse una fortissima componente religiosa, fiorì la “Leggenda dello scanese”, la costruzione o la ricostruzione della chiesa del periodo bizantino, il passo è stato breve. Sia la componente civile sia quella religiosa intitolarono “Sa mostra” a Costantino Imperatore dandogli il nome di ARDIA. Così uno spettacolo fortemente laico, con l’attribuzione di rito religioso è stato un fattore altamente determinante per la sopravvivenza dell’ARDIA che, col tempo, la Chiesa ha fortemente monopolizzato. Così un rito civile è diventato quasi un appendice di quello religioso, lasciando alle forme laiche lo spazio di semplice cornice rituale.
Ancora oggi l’Ardia conserva il suo valore vitale di rito di riscatto mitico-culturale dell’esistenza collettiva e non può e non deve consentire lo scadimento del rito al modo di divertimento popolaresco, non religiosamente impegnato. Spetta a noi sedilesi distinguere certi schemi, che rispondono a funzioni specifiche, per assorbire il potenziale pagano che il clero ha inculcato nel tempo nel rito dell’Ardia e il culto di Costantino.
Per noi L’Ardia si manifesta e ci accompagna dalla culla alla bara, nel dolore, nei giochi e nella gioia, dappertutto vive e parla. Il legame ancestrale che lega noi sedilesi all’Ardia e a Santu Antinu è molto forte e complesso, senza ombra di dubbio è il vero tratto della nostra identità.
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